Spesso il fattore tempo è al centro dei discorsi dei genitori di figli affetti da DCA
“Quanto tempo ci vorrà?”: il Tempo e l’angoscia dei genitori dei pazienti affetti da disturbi alimentari.
Nella mia pratica clinica non di rado mi interfaccio con i genitori dei miei pazienti. Incontrare i genitori, nell’ambito del percorso terapeutico, è un modo che mi permette di relazionarmi in maniera più ampia con le persone che seguo e che mi consente di valutare l’interazione con le figure genitoriali che molto spesso elicitano due tipi di comportamento nei figli: il comportamento iperprotettivo in cui il figlio è totalmente teso a “discolpare” il genitore, definendolo assolutamente privo di qualsivoglia caratteristica negativa (“ i miei genitori sono perfetti”, “non mi fanno mancare nulla”, “sono i miei migliori amici”, “non ho nulla da dire rispetto ai miei genitori”), o un comportamento aggressivo in cui i genitori vengono resi ostaggi dei figli e relegati nel posto “dei cattivi”.
Alcune Storie
Milena ha 22 anni, è una ragazza solare, molto educata e, il più delle volte “ipercontrollata”, quando parla di sua madre tende a “incolparla” della sua sintomatologia alimentare, riversandole addosso il ruolo del carnefice. Milena va su tutte le furie quando sua madre non interviene nei momenti in cui lei inizia a mangiare più del necessario. Vorrebbe che entrambi i suoi genitori le regolassero l’accesso al cibo, chiudendo a chiave la dispensa. Milena, nei momenti di crisi, inonda sua madre di insulti, la ritiene responsabile di ogni suo malessere. La madre e il padre, che ho incontrato più volte nell’ambito di colloqui familiari, hanno accettato di buon grado il fatto di poter iniziare un percorso di psicoterapia in cui possano sentirsi sostenuti nel difficile rapporto con Milena, che i due fanno fatica a comprendere, rimanendo comprensibilmente adesi ad una modalità di interazione superficiale, in cui è facilissimo scivolare in litigi aspri e frequenti. Parallelamente, Milena e la sua famiglia , hanno deciso di implicarsi nella cura. La possibilità di lavorare contemporaneamente, con due terapeuti diversi, ha consentito di affrontare le questioni relative non solo a Milena e al suo disturbo, ma anche ai genitori, come soggetti, al di là dei loro ruoli di madre e padre.
Anna invece ha 20 anni, dopo qualche colloquio conoscitivo, mi rivela la difficile situazione familiare, il padre sembra essere totalmente assente e assorbito dal suo lavoro, “non c’è mai, e quando c’è litighiamo”, la madre invece è descritta in modo molto positivo, una donna che lavora ma che ha tempo di dedicarsi ad Anna e sua sorella, benchè soffra del difficile rapporto con il marito. Quando propongo ad Anna un incontro familiare, lei mi dice che avrebbe invitato solo la madre, lasciando di fatto suo padre in quella posizione di “assenza” che lei stessa gli rimprovera. Acconsento ad incontrare Anna insieme a sua madre. Entrambe sono molto difese, tendono a condividere alcuni aspetti dei legami familiari riconoscendone la peculiarità e ponendosi alcune questioni rispetto al difficile clima familiare. L’assenza del padre è però definita in maniera diversa dalla madre di Anna, ella mi dice che il padre non c’è quasi mai perché fa moltissima fatica a tollerare anche solo la vista di Anna nei suoi momenti di difficile “interazione con il cibo”. Un padre che per difendersi preferisce non vedere. Invito anche la madre di Anna a poter pensare e a condividere con suo marito la possibilità di iniziare un percorso psicoterapico quantomeno supportivo. Sia Anna che la madre rifiutano questa proposta, la figli si chiede “cosa mai possa cambiare”, ed entrambe svalutano la psicoterapia come strumento di cura e sostegno e di messa in parola delle dinamiche familiari che riconoscono assolutamente avulse dal sintomo anoressico di Anna. La madre della paziente mi chiede di trovare “la causa”, quello che è andato “storto” e di poterle dire “quanto tempo ci vorrà” perché Anna possa guarire.
Se da un lato la domanda della madre è poter aiutare Anna ad uscire da questa difficile situazione, dall’altro entrambe negano completamente la possibilità che ci sia qualcosa di cui “occuparsi”anche rispetto al legame fra tutti i componenti della famiglia.
Porto questi due frammenti clinici , come opposti molto esplicativi rispetto alle diverse possibilità di implicazione nella terapia. Non di rado mi capita di percepire come il desiderio di alcuni genitori sarebbe quello di vedere i figli e le figlie “guariti” e “messi a posto” senza che nessun’altra della famiglia sia coinvolto.
Quanto tempo ci vorra?
La domanda “quanto tempo ci vorrà?” veicola in sé una serie di significati che spesso includono non solo l’angoscia legata alla presenza della malattia, ma anche un passo indietro rispetto alla possibilità di riflettere sul proprio ruolo genitoriale.
Lungi dal voler in qualche modo colpevolizzare la famiglia, ciò che mi viene da sottolineare è che a volte la paura di implicarsi nella cura dei figli, costituisce un enorme fattore di “resistenza” alla terapia che di certo dilata di molto, la risposta (in ogni caso impossibile) alla domanda “quanto tempo di ci vorrà”.
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